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Brda Contemporary Music Festival - a cura di Enzo Boddi (18/09/2018)

Šmartno (Slovenia), Casa della Cultura e Chiesa di San Martino

13-15 settembre

"In passato fortezza medievale, oggi Šmartno (in italiano San Martino) è un pittoresco villaggio situato nella regione di Brda, il Collio sloveno, terra di incroci culturali, vigneti e grandi vini. Da sette anni è sede di un festival di musica contemporanea organizzato, diretto e animato dal percussionista Zlatko Kaučič. In considerazione del retroterra e del curriculum artistico di Kaučič, il programma pone l'accento sull'improvvisazione intesa in senso lato, benché sia la matrice jazzistica della pratica improvvisativa a prevalere.

Gli eventi dell'ottava edizione si sono svolti quasi esclusivamente nell'auditorium della Hiša Kulture, la Casa della Cultura, mettendo in risalto la funzione dell'improvvisazione come poetica e sistema di composizione estemporanea. Al tempo stesso, la manifestazione non ha trascurato aspetti quali la didattica, il rapporto con la poesia e le produzioni originali.

La sempre rischiosa pratica della solo performance ha trovato in Michael Moore e Marco Colonna due interpreti rigorosi. Responsabile anche di un workshop con alcuni giovani musicisti sloveni (con i quali si è esibito nel concerto di chiusura), Moore sa esprimere anche nel limitato tempo a disposizione l'enorme bagaglio acquisito e consolidato da una più che trentennale frequentazione della scena olandese. Al clarinetto si riallaccia agli insegnamenti di uno dei suoi maestri, Joe Maneri, aggregando gradualmente cellule anche attraverso sovracuti, squittii e suoni stoppati, e collocandosi su una linea già perseguita da Anthony Braxton e Roscoe Mitchell. Al contralto costruisce un flusso, composito ma omogeneo, che racchiude anche fugaci riferimenti alla tradizione (frammenti di Bewitched e Everytime We Say Goodbye).

Nello scrigno acustico della chiesa di San Martino, al clarinetto in Si bemolle (un modello metallico) Colonna opera una ricerca dello spazio attraverso note prolungate e frasi dilatate, poi seguite da viluppi concentrici che si traducono in sequenze di respirazione circolare. Al clarinetto basso produce bordoni ed esplora registri estremi per poi indirizzarsi su linee melodiche essenziali, sequenze ritmiche e progressioni che sfociano in un urlo finale. Dall'impiego contemporaneo dei due clarinetti scaturiscono contrappunti che evocano musica sacra e Monteverdi, confluendo in atmosfere popolari di ispirazione balcanica.

Dal solo al duo. Insolito quello tra il sassofonista catalano Albert Cirera (residente a Copenaghen) e Silvia Bolognesi. Al retaggio della contrabbassista, ancorato al retroterra mingusiano e alle avanguardie di Chicago, fa da contraltare un approccio sassofonistico indissolubilmente legato all'improvvisazione radicale europea degli anni Settanta. Bolognesi esibisce la consueta sontuosa cavata, un pizzicato tornito, possenti pedali, poderose arcate e linee avvolgenti, provviste di un implicito senso del blues. Cirera emette suoni stoppati e schegge acuminate al tenore, modificandone il suono con l'inserimento di una lattina nella campana dello strumento e generando bordoni con l'ausilio della respirazione circolare. Applicando la stessa tecnica al soprano si pone su una linea espressiva affine a quella di Evan Parker. Proprio da questo contrasto, e dall'attenzione alle dinamiche, il duo trae forza e sostentamento.

Albert Cirera e Silvia Bolognesi, foto Iztok Zupan Sembrerebbero accomunati da una lunga frequentazione, ma in realtà i francesi Theo Ceccaldi (violino) ed Edward Perraud (batteria) si incontrano per la prima volta, dando vita ad un set altamente energetico, coeso e soprattutto creativo, animato da uno spirito mercuriale e da una gestualità teatrale ma non clownesca. Ceccaldi ha una formazione classica, evidente nell'attacco e nel suono, che occasionalmente modifica con discrezione attraverso eco, delay e distorsione. Al tempo stesso, è cosciente della lezione di Jean-Luc Ponty e Didier Lockwood, nonché dell'apporto al linguaggio dello strumento fornito da Zbigniew Seifert e Mark Feldman. Perraud è un fine colorista ed ama arricchire le proprie risorse con oggettistica ed elettronica. Tuttavia, nel gesto e nel gusto per la frammentazione ritmica ricorda il geniale Han Bennink.

Theo Ceccaldi ed Edward Perraud, foto Iztok Zupan Dopo solo e duo, ampio spazio al trio nelle sue diverse declinazioni. Per Without The Borders Kaučič ha deciso di abbinare il proprio set percussivo alle corde della consolidata coppia, nell'arte e nella vita, Barry Guy (contrabbasso) e Maya Homburger (violino barocco). Ne è risultato un equilibrio tra improvvisazione e scrittura (ovviamente, data la presenza di una violinista classica), matrici classica, contemporanea e jazzistica, tradotto in lunghe sequenze che alternavano porzioni delle Mysterien Sonaten di Ignatz Biber, sezioni improvvisate, estratti dai Giochi di György Kurtág e composizioni di Guy. Giochi di contrapposizioni e contrasti dialettici tra i pizzicato strappati e percussivi, le arcate poderose e i bordoni del contrabbasso, i penetranti inserti del violino e la gamma coloristica delle percussioni, sempre in funzione di intelligente disturbo. Una trama efficace anche in Art di Steve Lacy, in cui è il violino a disegnare la parte riservata al sax soprano.

Without The Borders (Kaucic-Homburger-Guy), foto Iztok Zupan All'insegna della libera improvvisazione l'esibizione di Clarissa Durizzotto (contralto e clarinetto) e dei giovanissimi Matjaž Bajc (contrabbasso) e Gal Furlan (batteria), a dimostrazione del fatto che anche oggi le forme più radicali – lungi dall'essere storicizzate – possono trovare interpreti credibili. Nell'azione del trio emergono in positivo l'energia, la sfrontatezza e l'accettazione del rischio, già evidenti nell'impeto e nel rapporto «fisico» con gli strumenti dei due giovani sloveni. Quanto a Durizzotto, si sbarazza di qualsiasi inibizione o riferimento storico, dando piena espressione in un flusso di coscienza a una voce sanguigna e viscerale su entrambe le ance, arricchita da un'ampia gamma di sfumature timbriche.

Nell'azione del trio formato da Giorgio Pacorig (piano), Michele Rabbia (batteria, percussioni, elettronica) e Michael Thieke (clarinetto) la musica si dipana lentamente per accumulo di cellule prodotte anche attraverso suoni parassiti dell'ancia, interventi e preparazioni sulla cordiera del piano, oggettistica ed elettronica applicate al set percussivo. La materia prende dunque forma in virtù di una meticolosa interazione ed esplorazione delle dinamiche. Ne derivano ribollenti passaggi free e sequenze di gusto contemporaneo, grazie a un uso percussivo della tastiera, dall'impeto tayloriano, all'amplissima gamma di risorse timbriche ricavate da Rabbia con la consueta sagacia, alle incursioni di un clarinetto che richiama tanto Braxton quanto Peter Brötzmann o il dimenticato Rolf Kühn.

Detto del seminario condotto da Moore e dell'apprezzato concerto finale dell'ensemble, va citato anche il concerto di un doppio trio prevalentemente costituito da musicisti facenti capo a Kombo B e al circuito didattico creato da Kaučič negli ultimi anni. Da una parte Francesco Ivone (tromba), Žiga Jenko (voce) e Žiga Ipavec (batteria), dall'altra Jure Boršič (contralto), Leonard Medica (chitarra) e Urban Kušar (batteria) hanno dato vita a una performance frenetica, piena di energia ma disordinata, sempre all'insegna della libera improvvisazione.

Il già citato rapporto con la poesia è stato documentato da Due anime a dialogo. Lontano dai poetry reading di Ginsberg, Ferlinghetti, Corso e Amiri Baraka, l'evento ha messo a confronto sloveno e italiano: da una parte composizioni di Milan Dekleva, lette da Brane Grubar e commentate al piano dallo stesso Dekleva; dall'altra, testi di Pierluigi Cappello, con la lettura di Stefano Montello e l'accompagnamento all'arpa di Tea Plesničar.

Da segnalare, infine, che la chiesa di San Martino ha ospitato anche una registrazione che – sotto l'egida di Kaučič – ha coinvolto, oltre al percussionista sloveno, Silvia Bolognesi, Marco Colonna, Michael Moore e Albert Cirera. Un'ulteriore conferma della vitalità che anima la scena della musica improvvisata in Europa."

Enzo Boddi




"Michael Moore: documentando proyectos en Ramboy Records

Es tiempo de valientes. De músicos que como Michael Moore, en medio de la crisis económica, de la crisis del mercado discográfico y de la sempiterna crisis del jazz (agudizada en estos últimos tiempos incluso en países como Holanda), se animan a publicar del tirón seis grabaciones, seis, que sirven para documentar diferentes proyectos y propuestas. Michael Moore tiene unos motivos muy claros: “el pasado año el gobierno holandés tomó la decisión de reducir drásticamente las inversiones en todas las disciplinas artísticas. Está claro que para ellos la cultura es algo de poca importancia. Hay una cita atribuida a Edgar Varese que Frank Zappa solía utilizar: ‘el compositor actual se niega a morir’. Para mí publicar todos esos discos es una actitud desafiante. Otros motivos son que hace una temporada que no publico nada nuevo. Tenía esas grabaciones en directo y encontré una manera económica de publicarlas. A pesar de que me siento afortunado de no estar involucrado en la ‘industria musical’ me doy cuenta de que los viejos sistemas de grabación, distribución, etcétera no funcionan. Estoy intentando encontrar otras maneras de hacer llegar mi música a la gente, incluyendo una mayor presencia en internet”.

En 2009 el acordeonista Will Holshauser, el baterista Han Bennink y Michael Moore (que tocaba en aquella ocasión clarinete, clarinete bajo, saxo alto y melódica) grababan en directo Live in NYC. El repertorio es una mezcla sumamente interesante de improvisaciones de los tres músicos, standards e incluso un tema cajun y otro tradicional de Madagascar. A los tres músicos se les nota sumamente cómodos. “Llevo tocando con Han (Bennink) en distintos tríos durante 30 años y ambos disfrutamos tocando melodías pegadizas, improvisando y moviéndonos entre un extremo y otro. Han swinguea como nadie y para mí es una oportunidad de explorar temas de jazz antiguos. (Will)Holhouser también aportó sus ideas al repertorio”.

El 3 de marzo de 2007 se grabaron los dos conciertos de Available Jelly en Baarle Nassau (Holanda). Esta fue la última actuación del veterano grupo (en activo desde 1975) en un formato de sexteto con Eric Boeren (corneta),Wolter Wierbos (trombón), Tobias Delius (saxo tenor y clarinete), Ernst Glerum (contrabajo), MichaelVatcher (batería) y Michael Moore (clarinete y saxo alto). Los seis integrantes del sexteto están muy brillantes interpretando un repertorio integrado por una mayoría de composiciones de Moore, una de Eric Boeren, tres deDuke Ellington, otra de Billy Strayhorn y un tema tradicional de Myanmar. La música es un crisol de estilos. Además de la rendición al legado ellingtoniano, están los aromas étnicos del temas de Myanmar (Birmania) y una composición de Moore de inspiración africana, la referencia al blues, a la música de Nueva Orleans, al cool jazz, a la música clásica o al free-bop. No imagino mejor forma de documentar esta despedida.

En febrero de 2008 el Michael Moore Quintet grabó Rotterdam. Un CD en directo con un repertorio compuesto en su integridad por Moore. Le acompañaron el trompetista Eric Vloeimans, el pianista Marc van Room, el contrabajista Paul Berner y el baterista Owen Hart Jr. La grabación resulta muy equilibrada ya que en ella se alternan un puñado de temas tranquilos y líricos, con otros animados e intensos. Un gran repertorio nuevamente.

Las dos últimas grabaciones son nuevamente dos directos grabados en 2010 (Amsterdam) y 2011 (Eastern Sunday) por el Michael Moore Quartet (Harmen Fraanje -piano-, Clemens van der Feen -contrabajo-, MichaelVatcher -batería y percusión-, y Moore -saxo alto y clarinetes). A pesar del poco tiempo transcurrido entre ambas, estas presentan unas características muy diferentes. Así, mientras Amsterdam es sumamente lírico con un punto de melancolía (roto en un solo momento por un tema de clara inspiración bop), Eastern Sunday sigue incidiendo en el aspecto melódico aunque incorporando composiciones con un aromas tradicionales que evocan a distintas partes del mundo y que incluso hacen pensar en aquello de un folklore imaginario. “El grupo está evolucionando. El primer CD del grupo, Fragile, tiene un sonido muy, muy frágil. A pesar de que todavía tocamos algunos temas así, también tenemos otros abiertos que pueden ir en muchas direcciones, y así lo hacen”."

Pachi Tapiz, 2012



"Michael Moore Quartet - Quintet / Amsterdam - Rotterdam

Michael Moore è uno di quei musicisti che ha trovato in Olanda l'ambiente ideale per vivere e prosperare artisticamente. Trasferitosi ad Amsterdam nei primi anni ottanta ha portato avanti fertili sodalizi con Ernst Reijseger e Han Bennink (Clusone Trio) e con altri musicisti europei (Tobias Delius, Frank Gratkowski) senza tralasciare i connazionali. Con questi ha inciso, tra gli altri, Home Game (con Herb Robertson, Fred Hersch, Mark Helias e Gerry Hemingway), i pregevoli Chicoutimi e Bering (in trio con Hersch e Mark Helias) oppure Jewels and Binoculars (con Lindsay Horner e Michael Vatcher).

I due dischi qui in esame, pubblicati entrambi nel 2011 dalla sua etichetta personale, la Ramboy Recordings, sono stati incisi in tempi diversi: Amsterdam risale al 16 febbraio 2010 e vede il sassofonista con lo stesso quartetto che nel 2007 ha registratoFragile; Rotterdam è anteriore di due anni (16 febbraio 2008) con protagonista il quintetto già ascoltato in Osiris del 2009.

Le formazioni non sono dunque occasionali e l'empatia tra i musicisti è palpabile. Moore e i suoi partners si muovono, con uguale intensità, tanto nei territori della libera improvvisazione quanto in quelli del modern mainstream. Da questo punto di vista le differenza tra i due dischi sono minime: dimensione informale e tradizione si confrontano e si alternano tra i vari brani o all'interno di essi. In Amsterdam troviamo molti momenti cantabili, in cui il leader dà piena dimostrazione delle sua vena lirica: "Ballad," "Patterns in Nature," "Amu Lu Silenziu" oppure "Hilletjesbrug" uno dei momenti più intensi. Dopo una lunga introduzione di contrabbasso, seguita dal piano che espone la melodia, Moore interviene al contralto caratterizzando il brano con un cifra radiosa e sognante. Più articolato è il successivo "Not Yet": inizia anch'esso come una lirica melodia, esposta da Moore al clarinetto basso, per poi assumere forme ritmicamente scandite, confluire nel free e ritornare al clima iniziale. Sul versante del libero confronto improvvisato s'impongono "Creeley" e "Fence" per i fantasiosi sviluppi.

Pubblicato: July 4, 2012
di Angelo Leonardi